The Alienating beauty of Globalization
and the Pure Joy of Seeing
About “Bankgok" by Andreas Gursky at Gagosian Gallery Rome
- Lei conosce il vero di nome di Bangkok?
- No
- Bangkok si chiama
Krung Thep Mahanakhon Amon Rattanakosin Mahinthara Ayuthaya Mahadilok Phop Noppharat Ratchathani Burirom Udomratchaniwet Mahasathan Amon Piman Awatan Sathit Sakkathattiya Witsanukam Prasit
E che diamine vuol dire tutto ciò?
- Tradurre queste parole è impossibile, o quasi.
I nomi Thai sono come gli apparati ornamentali dei loro templi, inutilmente sovraccarichi e gravati da elementi decorativi, da un fasto ridondante, puramente edonistico. (…)
Scelgono sostantivi e aggettivi ridondanti , dopodiché li infilano l’uno sull’altro, come le perle di una collana
Yukio Misima, Il Tempio dell’Alba
Nel terzo romanzo della tetralogia, ultimata poco prima del suo eclatante suicidio nel 1970, lo scrittore giapponese Yukio Mishima forniva un’accurata e poetica descrizione della capitale thailandese, così come appariva negli anni ’40. I taxi a tre ruote e i risciò, che affollavano le strade, qualche bufalo venuto dalle risaie con un corvo sulla schiena, i mercati di fiori e frutta esotica, i ragazzini che correvano dappertutto senza vestiti, gli alberi di mimosa, le pagode d’oro degli oltre settecento templi che si ergevano al di sopra della vegetazione, le mangrovie le cui radici si sviluppavano in complicati intrecci lungo i caratteristici canali, khlongla, che attraversavano la città in lungo e in largo e che le valsero il nome di Venezia d’oriente. Questo era ciò che si presentava agli occhi del protagonista di “Il Tempio dell’Alba”, Shigekuni Honda, un avvocato di mezza età che aveva passato la vita alla ricerca delle reincarnazioni del suo amico d’infanzia Kiyoaki e che arrivava a Krung Thep, nome con cui ancora oggi la popolazione locale chiama Bangkok poco prima della seconda guerra mondiale. Il Tempio dell’Alba da cui ha origine il titolo del romanzo di Mishima è il Wat Arun situato ancora oggi sulla riva destra del fiume Chao Phraya, che attraversa tutta la città da nord a sud. Scampata al colonialismo europeo, grazie all’abilità diplomatica e all’attività riformatrice del sovrano noto con il nome di Rama V (1853-1919), la Thailandia, all’epoca nota con il nome di Siam, mantenne a lungo ‘inviolate’ le sue bellezze naturali e artistico-architettoniche.
Ma nel 2011, quando il fotografo tedesco Andreas Gursky inizia un ciclo di lavori dedicati Bangkok, si trova di fronte una città ben diversa da quella che apparve agli occhi del protagonista del romanzo di Mishima. Oggi la capitale thailandese è una delle venti mega-metropoli asiatiche, un gigantesco agglomerato urbano in cui si concentra circa il 70% delle attività economiche e della ricchezza del paese, una città proiettata verso il futuro, eppure costantemente minacciata dall’innalzamento delle acque che la inghiottono ad un ritmo inquietante. Alcune aree di Bangkok, che si trova già a meno di due metri sopra il livello del mare, affondano circa 10 centimetri l’anno. Il progressivo inabissamento della capitale, ha iniziato ad aggravarsi nel secondo dopo guerra, in particolare a partire dagli anni ’50 quando l’incremento demografico e le esigenze abitative, hanno spinto le istituzioni ad autorizzare il riempimento dei canali, khlongla, che anticamente attraversavano tutta la città. Queste caratteriste vie acquatiche costituivano una rete naturale di drenaggio, fondamentale nella stagione monsonica, quando le piogge abbondanti trasformano il terreno in una poltiglia di fango. La loro cementificazione ha privato il terreno di un’importante via di sfogo dell’acqua piovana, mentre la distruzione di ettari di foreste di mangrovie che un tempo assorbivano l’acqua del golfo, l’azione di circa 11mila pozzi che pompano 2 milioni e mezzo di tonnellate d'acqua l’anno e il peso dei grandi building residenziali e dei grattacieli, spuntati come funghi negli ultimi vent’anni, hanno alterato profondamente la base già friabile del sottosuolo, ostacolando ulteriormente il deflusso verso il mare. La speculazione edilizia, il surriscaldamento globale, l’alterazione della flora e della fauna naturale rischiano di trasformare la capitale thailandese in una nuova Atlantide.
È forse per questa ragione che nella serie “Bangkok” (2011), Andreas Gursky sceglie di non posare il suo sguardo sugli ori dei templi, le tonalità di blu quasi trasparente dei suoi cieli tropicali velati dai fumi selvaggi dell’industrializzazione, la varietà di esseri umani che popola le vie, i tuk-tuk che si incastrano nel traffico, lo skyline iper-contemporaneo e i suoi grattacieli, ma si concentra sulle acque silenziose e oscure del fiume Chao Phraya. Protagonista di questa serie, presentata per la prima volta in Italia nella personale alla galleria Gagosian di Roma (visibile fino al 3 marzo), è il fiume e le sue acque che in un futuro non troppo lontano potrebbero inghiottire l’intera città. Arteria pulsante della capitale, il Chao Phraya rappresenta l'asse di trasporto più importante del paese e il porto che sorge alla sua foce, nell’area sud della città, è uno dei più attivi di tutto il sud-est asiatico. Nondimeno, il fiume e il mare che avanza ogni anno sono oggi una reale minaccia alla sopravvivenza di Bangkok.
In mostra da Gagosian, una selezione di sei opere di grande formato (307×237cm) che al primo sguardo, non appena si entra in sala, richiamano alla mente le ricerche sull’astrattismo dei maestri del color field americano. Solo quando ci si avvicina, l’immagine si rivela completamente allo sguardo, svelando la sua vera natura. Il realismo soggettivo di Gursky in questa serie, come del resto in molte altre, colloca il punto di osservazione in alto, a volo d’uccello, ma su un piano leggermente inclinato, richiamando le prospettive aeree immaginarie di Leonardo da Vinci. L’obiettivo è posto proprio al di sopra del fiume in una vertiginosa e leggermente imperfetta plongée sulle acque. Tutto ciò che appare nell’inquadratura, dalle increspature della superficie ai molteplici riflessi di luce che su essa si specchiano, dai rifiuti plastici, agli scarti vegetali che affiorano tra i moti fluttuanti, ogni elemento viene magnificato e sublimato in un attento lavoro di post-produzione. Ogni singolo elemento concorre alla definizione dell’intera architettura dell’immagine ed è parte di quel percorso di decouverte che caratterizza l’approccio al lavoro di Gursky. Spesso infatti, e nella serie Bangkok è particolarmente evidente, la reale natura dell’immagine non viene rivelata subito all’osservatore nella sua interezza, ma scoperta gradualmente. Guidato nel suo lavoro da una forza che egli stesso definisce la “pura gioia del guardare” Gursky sembra suggerire il fatto che il piacere della visione abbia bisogno di essere dosato, affinché possa essere compreso e apprezzato nella sua interezza.
La mostra da Gagosian a Roma ha anticipato di alcuni giorni la grande retrospettiva alla Hayward Gallery di Londra (iniziata il 25 gennaio e visibile fino al 22 aprile) che presenta circa sessanta tra i lavori più significativi dell’artista. Curata da Ralph Rugoff, prossimo Direttore artistico della Biennale di Venezia, la mostra londinese presenta una selezione importante delle opere realizzate a partire dagli esordi negli anni ’80 fino ad oggi. Un atlante monumentale del mondo contemporaneo, perché come dice l’artista il suo unico scopo è quello di realizzare un’enciclopedia della vita (“I only pursue one goal: the encyclopedia of life”).
Se quel fenomeno di interconnessione planetaria che ha ridisegnato e sta ridisegnando le mappe del mondo, quel fenomeno che oggi chiamiamo globalizzazione avesse un fotografo ufficiale quello sarebbe senza ombra di dubbio Gursky. Nessuno come lui è stato capace di coglierne gli aspetti caratterizzanti, le contraddizioni, i piaceri e le follie per estrapolarne un linguaggio estetico unico e inconfondibile. Dalle sale degli stock-exchanges nelle capitali della finanza mondiale, ai magazzini di Nha Trang dove ogni giorno decine, forse centinaia, di donne intrecciano a ritmi estenuanti oggetti di paglia, dai depositi di Amazon, agli scaffali minimalisti dei negozi Prada e Gucci, Gursky ha dilatato gli orizzonti estetici della globalizzazione, trasformando gli inquietanti templi del supply-chain world in luoghi mistici, intrisi di una bellezza straniante e un fascino ipnotico.
La manipolazione digitale in post-produzione attraverso cui compone l’immagine e la precisione maniacale dello sguardo fotografico, che intrappola quello dell’osservatore in una fitta maglia di stimoli visivi, giocando con la magnificazione e la moltiplicazione compulsiva, ma sempre impeccabilmente calibrata, di oggetti, di individui, di flussi, caratterizzano da sempre il suo lavoro. Come dice lo stesso Gursky, il digitale gli ha concesso la libertà espressiva del pittore, una libertà che non esita ad utilizzare in vari modi possibili. Il suo lavoro non consiste nel realizzare un bello scatto, ma nel comporre sapientemente l’architettura di un’immagine secondo una tecnica compositiva che ricorda la precisione dei grandi maestri della pittura. La liberazione dello sguardo dalla fissità del punto di vista unico, la moltiplicazione delle prospettive nell’intento voluto di confondere lo sguardo e più recentemente gli esperimenti di manipolazione fotografica radicali come nella serie Review (2015) che creano veri e propri scenari inesistenti aprono infine alla possibilità di spazi narrativi all’interno dell’opera visiva, in cui le storie del mondo contemporaneo si de-costruiscono e si ricostruiscono arricchendo ulteriormente la già complessa semantica dell’immagine.



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