ARTE, GLOBALIZZAZIONE, DECOLONIZZAZIONE E STUDI POST-COLONIALI - Un'introduzione



Con il termine globalizzazione, diventato popolare all’inizio degli anni ’90, si indica l’insieme di interconnessioni commerciali ed economico-finanziarie, sociali e culturali che legano ormai la quasi totalità degli Stati del mondo. Se legami e connessioni tra i vari paesi e continenti sono esistiti fin dall’antichità e l’interconnessione economica non è quindi un fenomeno recente, in seguito al crollo del sistema sovietico e alla fine della guerra fredda, complici anche l’espansione delle nuove tecnologie di comunicazione e la facilità degli spostamenti tra un continente e l’altro, il grado di interrelazione globale è aumentato in maniera mai sperimentata prima nella storia dell’umanità.  
Gli esperti tendono a considerare la globalizzazione come un processo che si sviluppa attraverso diverse fasi, per cui quella degli anni ’90 sarebbe in realtà la terza. Viene normalmente definita “prima globalizzazione” l’epoca a cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, prima del grande conflitto mondiale, epoca in cui il fenomeno del colonialismo raggiungeva il suo apice. In questo periodo gli scambi tra centro e periferia del globo avvenivano in maniera verticale, dai paesi colonizzatori verso i territori colonizzati. L’Europa, esportava capitale e lavoro verso il resto del globo e importava risorse e materie prime.
In questi anni non solo il mondo, ma anche le arti visive andarono incontro a profonde mutazioni. Com’è noto, negli ultimi decenni del XIX secolo, soprattutto in Francia, il post-impressionismo spalancava le porte al moltiplicarsi degli approcci all’immagine, al rinnovamento dei linguaggi espressivi e a una rimessa in discussione radicale dei precedenti codici estetici. Man mano che il nuovo secolo avanzava sorgevano nuove pratiche artistiche e nuovi modi di fare arte. Dai movimenti di secessione, al simbolismo, all’espressionismo, alle avanguardie storiche, in pochissimi decenni il modo di fare, di percepire e di intendere l’arte venne completamente stravolto. Questa esigenza di rinnovamento era da considerare in parte una conseguenza del diffondersi della fotografia, invenzione che aveva rivoluzionato l’approccio all’immagine già alla sua apparizione verso la fine degli anni ’30 dell’800 e che negli ultimi decenni del XIX secolo, grazie al miglioramento e alla semplificazione delle tecniche di realizzazione e di produzione diventava sempre più alla portata di tutti. La possibilità di riprodurre la realtà, in maniera relativamente semplice, attraverso uno strumento tecnico che garantiva la creazione di un’immagine più fedele di quanto avrebbe potuto fare la mano di qualunque artista, l’impossibilità e l’inutilità di una sfida tra l’uomo e la macchina su un terreno che per altro aveva già fornito nel corso dei secoli esempi di eccellenza inarrivabili, avevano senza alcun dubbio contribuito a indirizzare la ricerca artistica verso nuovi percorsi di sperimentazione.
Allo stesso tempo, intorno alla metà dell’800 in Europa cominciavano a fare la loro apparizione i primi musei etnografici in grado di poter accogliere i sempre più numerosi manufatti artistici provenienti dalle colonie. Nel 1878, veniva finalmente inaugurato a Parigi l’imponente museo del Trocadero che si presentò da subito come uno dei poli scientifici più interessanti al mondo e capace già di attirare un vasto pubblico, come dimostrano testimonianze di pochi anni successivi all’apertura. Nota è ormai l’impressione formidabile che fece il museo a Picasso quando lo visitò nel 1907, che non fu tuttavia il solo in quegli anni a subire il fascino dell’esotico. Dell’influenza che queste forme d’arte allora definite ‘primitive’ o ‘naives’ esercitarono su artisti come Rousseau, Gauguin, Henri Matisse, Picasso, Kirchner, Van Gogh, ma anche sui surrealisti, si iniziò a parlare fin dall'inizio del XX secolo. Nella prima mostra internazionale surrealista, organizzata in parte anche da André Breton a Londra nel 1936, erano presenti diversi manufatti provenienti dalle colonie, soprattutto africane. La mostra di Breton, lui stesso appassionato d'art negre, fu la prima a tentare di tracciare una linea di collegamento tra le arti prodotte in Europa tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 e quelle realizzate in altri continenti, ma malgrado questi primi tentativi, per l’inizio di un vero e proprio dibattito sulla relazione tra arte moderna europea e arte “extra-occidentale” bisognerà aspettare gli anni ’80 del ‘900. 


André Breton nel suo studio nel 1960. Fotografia diIda Kar (1960) 


Questa fase iniziale della globalizzazione subì una battuta d’arresto in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale, che si protrasse fino al 1945. Quando si parla di seconda globalizzazione si intende infatti il periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla fine degli anni ’80, ovvero fino all’inizio del collasso del sistema sovietico. Questa seconda fase interesserebbe soltanto i paesi del patto Atlantico in cui si era sviluppata un’economia di mercato e si cominciavano ad avere scambi commerciali sempre più intensi, favoriti da una politica di alleggerimento di dazi e imposte. Mentre l'attuale fase della globalizzazione, che come già specificato all’inizio di questo paragrafo, sarebbe iniziata negli anni ’90, è da considerarsi la terza. 
Il periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni ’90, corrisponde anche al momento in cui l’avventura del colonialismo viene definitivamente archiviata. Il colonialismo è un fenomeno mondiale complesso che affonda le sue radici nel periodo delle grandi scoperte geografiche del XV secolo. Per alcuni versi, può essere fatto risalire al 1492, anno della scoperta dell’America, in quanto con questo termine si intende comunemente il processo di espansione territoriale e culturale verso i paesi tecnologicamente meno avanzati e considerati primitivi, da parte degli Europei. I teorici che sostenevano l’espansione coloniale difendevano l’idea secondo la quale fosse compito degli Europei portare la civiltà e lo sviluppo agli altri popoli. 
Naturalmente, le reali motivazioni politiche ed economiche, nonché i meccanismi di sfruttamento e di sopraffazione che erano alla base del colonialismo sono oggi ben noti a tutti. Ufficialmente, la decolonizzazione, ovvero il processo di affrancamento delle colonie dai paesi colonizzatori, iniziò nel secondo dopoguerra, anche se in realtà, già nel periodo che intercorse tra il primo e il secondo conflitto, alcune nazioni africane e asiatiche avevano cominciato a rivendicare una maggiore autonomia, in cambio dell’aiuto fornito ai paesi europei durante la prima guerra mondiale. Nella dichiarazione della Carta Atlantica (1941) veniva per la prima volta affermato il diritto dei popoli all’autodeterminazione e alla libera scelta del proprio governo, dichiarazione che suscitò speranze di indipendenza nelle popolazioni colonizzate.
Alla fine della seconda guerra mondiale, i movimenti indipendentisti cominciarono a diffondersi in tutti i territori colonizzati. La decolonizzazione non fu un processo rapido e indolore. Il più delle volte avvenne in seguito a rivendicazioni popolari o attraverso il rifiuto di cooperazione con le forze coloniali come nel caso della battaglia non-violenta portata avanti da Gandhi in India. Altre volte nacquero veri e propri conflitti come nel caso della guerra d’Algeria, anche nota come guerra franco-algerina, che tra il 1954 e il 1962, vide lo scontro violento tra l’esercito Francese e il Front de Libération Nationale
La guerra, si svolse sia in nord-Africa che sul territorio francese dove gli indipendentisti agivano a colpi di atti terroristici e si rivelò particolarmente cruenta. Ma anche dove l’indipendenza avvenne senza scontri sanguinosi, la dipartita delle potenze europee dai territori occupati ha quasi sempre lasciato problemi di gestione non indifferenti che a volte si sono trasformati in veri e propri conflitti tra le popolazioni locali. Due esempi eclatanti di questo tipo sono il conflitto israeliano-palestinese, tutt’ora irrisolto, e il caso del Ruanda dove dalla fine degli anni '50, si moltiplicarono rivolte, tentativi di ribaltamento del potere e conflitti armati tra le due etnie Hutu e Tutsi, che raggiunsero il loro apice nel 1994. Il conflitto che si rivelò un massacro di proporzioni gigantesche, perpetrato con tutti gli strumenti possibili, non solo con armi da fuoco, ma anche con armi da taglio, machete e bastoni chiodati, è noto come genocidio ruandese. Si calcola che in pochi mesi circa un milione di persone persero la vita, nell’indifferenza quasi totale dei media internazionali.



Alfredo Jaar The Silence of Nduwayezu, 1997. © Alfredo Jaar, courtesy of Galerie Lelong, New York.


Nel 1996, due anni dopo il massacro, l’artista cileno Alfredo Jaar si recò sui luoghi di guerra per incontrare i sopravvissuti. Da questo viaggio nacque “The Rwanda Project” un ciclo di 25 lavori, tra installazioni, video e fotografie che Jaar  realizzò tra il 1987 e il 2006. Il progetto dell’artista cileno, cercava di rifocalizzare lo sterminio di massa nell’ambito di una dimensione individuale e personale, nel tentativo di rendere la tragedia più comprensibile all’opinione pubblica internazionale e lo fece attraverso evocazioni estremamente potenti di alcuni sopravvissuti. The Silence of Nduwayezu (1997), ad esempio, è un’installazione composta da un milione di diapositive tutte uguali, ammassate l’una sull’altra che raffigurano gli occhi di un bambino. Nduwayezu, che l’artista incontra in un campo profughi, aveva appena cinque anni quando di fronte ai suoi occhi entrambi i genitori furono falciati a colpi di machete. Riuscito a scampare alla morte, ma completamente sotto shock, il bambino rimase in silenzio per quattro settimane. L'installazione di Jaar conduce lo spettatore in una dimensione muta e senza tempo, ponendolo di fronte un elemento visivo predominante: gli occhi di Nduwayezu.   



Alfredo Jaar The Silence of Nduwayezu, 1997 Dettaglio dell’installazione  © Alfredo Jaar, courtesy of Galerie Lelong, New York.


L’avventura coloniale si esaurì quasi totalmente tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 anche se l’episodio conclusivo di questa drammatica epopea avvenne solo nel 1999 con la restituzione della giurisdizione di Macao da parte dell’esercito britannico ai cinesi. Le conseguenze del colonialismo e della decolonizzazione non si sono però esaurite, come già accennato, e i loro effetti in alcune parti del mondo, tra cui il medio-oriente, ma anche in diverse aree dell’Africa e dell’Asia, gravano ancora oggi sul sistema mondiale. Cause ed effetti trasversali e diretti, traumi e ferite ancora aperte dell'esperienza coloniale sono costante oggetto di riflessione da parte di artisti e storici dell’arte, come vedremo meglio più avanti. Al momento, vale la pena almeno citare il lavoro dell'artista franco-algerino Kader Attia per cui le tematiche post-coloniali e le questioni delle 'riparazioni' da parte delle potenze occidentali nei confronti delle ex-colonie sono al centro di una serie di opere, sculture, video, installazioni, performance che esplorano conseguenze e significati politici, storici e sociali del passato coloniale sul presente. 



Kader Attia. The Repair from Occident to Extra-Occidental Cultures, 2012, mixed media, variable dimensions, Commissioned and produced by dOCUMENTA (13) with the support and courtesy of the artist, Galleria Continua San Gimignano / Beijing / Le Moulin, Galerie Krinzinger, Galerie Christian Nagel. Further support by Fondation nationale des arts graphiques et plastiques, France, Aarc—Algerian Ministry of Culture e Centre National des Arts Plastiques, France, Photo Ela Bialkowska


Se la globalizzazione ha generato cambiamenti socio-politici, economici, ma anche culturali, e ha contribuito a modificare profondamente il rapporto tra centro e periferie del mondo dell’arte, ridefinendo quelle che lo storico dell’arte Roberto Pinto aveva chiamato ‘nuove geografie artistiche’, la decolonizzazione ha contribuito ad arricchire il dibattito critico internazionale e a spostarlo su questioni fondamentali come: la ricerca di nuovi paradigmi di rappresentazione del sé e dell’altro; la necessità di una visione plurale della società e in generale del mondo; una revisione del rapporto con la storia, la tradizione e il passato; l’urgenza di ridefinire i rapporti di forza tra primo e terzo mondo, di ripensare i codici estetici e i linguaggi espressivi in maniera più inclusiva.
Tra la fine degli anni ’80 e soprattutto dagli anni ’90 in poi, i cosiddetti studi post-coloniali, che precedentemente erano piuttosto applicati in ambito filosofico-letterario, sociologico e psicologico iniziano a trovare spazio nell’ambito del dibattito artistico e critico.  Con questa definizione si intendono tutte quelle ricerche che si interessano a temi storico-sociali, politici e culturali che hanno avuto origine a partire dallo smantellamento del sistema coloniale. Si focalizzano generalmente su questioni identitarie, etniche e razziali, imponendo riflessioni sull’immagine, sulla rappresentazione di sé e dell’altro, e più recentemente sul rapporto tra modernità, post-modernità e super-modernità. Tra i pionieri degli studi post-coloniali ricordiamo Edward Said che in un suo noto saggio (Orientalism, 1978) criticò il concetto di orientalismo e le costruzioni stereotipate “dell’oriente” fatte dall’occidente; Homi Bhabha noto soprattutto per le sue teorie sull’ibridazione culturale; Dipesh Chakrabarty con le sue idee sulla cultura subordinata e non ultimo lo psicologo di origini caraibiche Frantz Fanon. 
L’importanza degli studi post-coloniali oggi, a distanza di anni dalla fine del colonialismo, anche per paesi come l’Italia la cui esperienza coloniale è stata quanto meno ‘atipica’ e sicuramente di durata e di portata decisamente meno rilevante rispetto ad altre potenze europee, deriva dalla necessità di rintracciare parti mancanti di storia e di recuperare chiavi di lettura e strumenti di comprensione della realtà attuale in un mondo che è sempre più connesso, ma allo stesso tempo sempre più diviso e instabile.


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